I RACONTI DELL'ASSENZA

 

 

Feconda la terra d'altra sterilità

La parabola del Buon Dispensatore d'Assenza 

 

Un uomo, noto per la sua straordinaria bontà ed equità - uno di quegli uomini che senza tema di smentita può essere chiamato "santo" mentre ancora è in vita -, portava con sé - si può dire da sempre - un anelito così intenso da esserne certi giorni quasi soffocato. In altri era tenuto sveglio la notte, durante la quale in un dormiveglia inconsueto contemplava il mondo che egli già esperiva trasformato sotto la spinta del suo pensiero. Negli ultimi tempi questa non lo lasciava neppure per un attimo, una potentissima tensione non gli dava requie. Non conosceva in realtà dove o a che cosa una tale propensione lo avrebbe fatto approdare; tuttavia per certo aveva in cuor suo l'idea, fino a dove il ricordo s'inoltrava, che la terra, i mari, anche il cielo - se fosse stato il caso - definitivamente sbocciassero, cosicché i tempi fossero maturi onde dare i frutti dovuti, com'era descritto nelle Sacre Scritture, compimento dell'azione caritatevole e munifica del Seminatore. E tutte le cose del mondo finalmente sciogliessero il loro respiro inondate e sollevate da quella dovizia, che aveva origine e sentimento nella volontà d'un uomo prodigo di mente e di spirito fino alla dissipazione, giusto e compassionevole fino alla rinuncia di sé. Non volendo - forse non potendo - attendere oltre, e perciò avendo deciso per il momento di fare a meno dei compagni di viaggio per la sua impresa - chi doveva accompagnarlo troppo aveva temporeggiato a suo parere in modo incongruo - egli da solo passò all'azione: non ci fu particella della terra - anche del mare e del cielo -, dalle pianure ubertose - in realtà queste erano già coltivate, ma ugualmente ritenne opportuno transitare da quei luoghi e, con il suo intervento temerario, benché non esplicito, nel modo in cui scopriremo più avanti, farle partecipi della natura peculiare che gli apparteneva e che lo faceva differente da ogni altro, artefice d'un luogo e d'uno stato mai vissuti - alle montagne e ai loro ghiacciai eterni, dai più roventi e aridi deserti alle più lontane, gelide e infeconde contrade dei poli, persino entro le più intricate foreste dei Tropici, nulla rimase che egli, con il suo gesto d'affetto libero, leggero, appassionato e assente - d'un'assenza le cui caratteristiche più avanti si comprenderanno meglio - non avesse inseminato d'un seme nuovo, mai coltivato fino allora. Con grande, infinita pazienza, con moto dell'animo solidale, con dedizione dolcissima, con un abbraccio che s'era spinto oltre il comune sentimento di uomo egli s'era prodigato. Terminato il suo compito, quieto, assaporando un giusto riposo, si mise in calma attesa, pronto a partecipare del cambiamento di cui era stato l'artefice e umile servitore. E gli anni passarono, uno dopo l'altro, ma nulla si verificava nel senso di quanto egli aveva amato. Forse - ma era difficile ammetterlo - addirittura qualcosa di contrario rispetto a una certa inclinazione della sua natura generosa e feconda era successo. La terra abitualmente deserta era rimasta tale, almeno all'apparenza. Né diverso destino era capitato a quella terra solitamente fertile e che era abituata a mostrare i frutti migliori: essa s'era come ritirata, rinunciando alla sua esternazione naturale, se si fosse voluto considerare e analizzare il fenomeno dei cicli secondo il punto d'osservazione consueto. Poco in realtà era diverso alla vista abituale, ma tutto s'era come prosciugato e ribaltato agli occhi d'un pensiero che fosse mutato in modo corrispondente. Un soffio leggero avanzava attraversando il fondo delle cose, sollevandole dalla loro adesione passiva una con l'altra, nella loro insufficienza d'arbitrio di libertà di tempo e di spazio. Una specie di nulla insieme con un venir meno sottile, una mancanza delicata affioravano promettendo un finire e un'eventuale trasmutazione. Il senso di vuoto, di alterità - che ora subliminalmente agivano apprestando il calco dell'essere, l'alveo della vita che accettava di abbandonare anche se stessa - , lasciavano trasparire ben altri sentimenti che non quelli di amara impotenza con i quali gli uomini sono soliti reagire quando sono colti dall'idea d'una perdita così definitiva. Non si trattava d'un niente annichilente e disperato, né esso era apportatore d'angoscia o di luttuoso sentimento d'abbandono e di disordine, che tutto rende freddo, morente e insensato. Quell'uomo tuttavia lo si vedeva soffrire in silenzio. S'era come appartato e in quel suo esilio s'ingegnava in tutti i modi a conoscere che cosa in realtà di ulteriore rispetto anche a se stesso stesse per accadere: gran parte della sua mente infatti s'era fatta ricettiva in misura maggiore, partecipe di nuove esperienze e ragioni di cui egli non sapeva ancora precisare né il senso né la metodologia. Non gli era ancora stato possibile - o non aveva ancora ritenuto opportuno - d'avere accesso a quel suo orecchio assoluto, un organo particolare che nel profondo gli apparteneva e che si stava apprestando a mettergli a disposizione un canale di nuova specie, abile a captare e ad armonizzare le variazioni e gli echi anche i più sottili e i più disparati che emanino dall'esistenza e soprattutto dal suo mancare: in grado perciò di sondare e comprendere in unità di nuova composizione i misteri più distanti dell'universo. E' verosimile che egli per il momento avesse tralasciato il metodo del conoscere usuale, così che anch'esso potesse cessare in pace. Nella prospettiva d'apprendere ciò che si verifica oltre l'impronta che marca e fissa le cose, la cui espressività a causa di quel marchio è soffocata. Cogliendo invece quel distacco che la mancanza di vibrazione e la perdita d'apparenza fa emergere nella differenza sottile, invisibile ai sensi e alle percezioni: ora assumendone il calco le cose imparavano ad esistere vivendo d'una vita più astratta e al medesimo tempo più trasparente e luminosa - d'una luce invisibile ai sensi consueti - , meno coartate da un'opacità e da un'immobilità di cui sono i tristi prodotti conseguenti alla compressione del pensiero-corpo degli uomini condannato com'è all'oscura morte appesantita e gonfia in modo abnorme dalla sua massa concreta priva d'interstizi. Si trattava del frutto di quel seme che egli aveva inseminato e dei cui effetti non era possibile conoscere niente a priori, essendo espressione d'un nuovo progetto fuori e oltre il sistema che regola gli oggetti dell'universo prestabilito. Quest'universo finora abitato ed esperito è in pugno a una mente preda infelice e incompleta del suo stesso oggettivarsi in un modo che le impedisce d'essere il frutto di quell'assenza attiva e benefica di cui le cose invece potrebbero essere improntate. Quel seme aveva agito, ma in differenza; la sottrazione, il mancamento, la cessazione, la fine, l'antivibrazione, il distacco, la perdita con affetto della coazione, una povertà ricca d'intelletto, uno spirito mondato, l'antipotere, l'astrazione al posto dell'oggetto carico d'ingombro, tutto ciò era annunciato, un'era nuova era per fiorire. Ma egli ancora non era contento; l'animo non si faceva del tutto lieto; era in attesa di conoscere probabilmente oltre se stesso. Un dolore talvolta acuto in lui s'intratteneva. Eppure un lume nella distanza, una fiammella di luce bianchissima, appena velata, ma viva nella penombra silenziosa, gli dava indicazioni preziose circa l'evento del quale incominciava a precisarsi anche l'oggetto. Una manchevolezza? Il presentimento d'un alcunché di sconosciuto? Una parte rimaneva tuttora oscura, quella che si riferiva alla perdita ulteriore che procedeva e che portava lui stesso in un altrove. Allora una domanda insistente gli s'affacciava alla coscienza: "Perché? Che cosa era successo? Perché il frutto non si vedeva? Quale colpa era da espiare? Quale fine era ancora da scontare?". Implorava il cielo, bussava alla terra, chiedeva lumi agli orizzonti che aveva attraversato. Finalmente l'oracolo accettò di mostrare apertamente il senso senza reticenze e incominciò a comunicare. Nulla - proprio niente, una nientità di nuovo genere - era il risultato del suo gesto così vivo d'affetto e generoso. Nessun evento si sarebbe ripetuto nel modo con il quale già era accaduto in balia dei sensi  e delle percezioni, dell'io accentratore degli uomini non capaci d'essere altri da sé. Nessun frutto si sarebbe sporto oltre le fronde degli alberi dopo quel segno di nuova espressione. Nessun animale né figlio di uomo sarebbe venuto alla luce, oltre il limite segnato dal messaggio che egli, con il suo fare e mediare, aveva proposto e lì lasciato perché quietamente si consumasse. Neppure alcun dio si sarebbe più affannato alla ricerca di uomo con cui dialogare o con il quale disputare ovvero con il quale condividere la ragione dell'esistenza e della sua cessazione. Era quella la fine giusta, il termine compiuto e perfetto dell'azione e del pensiero d'un uomo sapiente e buono che, con il suo adoperarsi al di fuori di sé, oltre le sue stesse forze, aveva creduto che la più radicale delle rivoluzioni potesse avverarsi. Era difatti accaduto che ogni cosa avesse imparato a rinunciare alla mai sconfitta coazione a ripetersi identica a sé e ad esternare un'esistenza fino ad allora inutilmente in rilievo: mezzo concreto e opaco, vie materiali, altresì spirituali così manchevoli, oberate da una mancanza che difetta di pietà e di consapevolezza, perciò aliena e dannosa per gli uomini cui quell'esteriorità pingue e talvolta addirittura oscena è rivolta, perché la si confermi essendo complici ciascun uomo dell'altro. La cessazione del surplus di moltiplicazione e di fissazione, che soltanto all'apparenza risulta fecondo, era stato il miglior dono che all'universo - e agli uomini - potesse toccare in sorte. E quanto era seguito al gesto d'amore grandissimo, che quell'uomo - era uomo o chi altri?, tuttora è da interrogarsi - aveva regalato alla terra, al cielo e alla profondità dei mari, era espressione particolarissima d'un atto consapevole, d'una decisione risoluta. Esso mirava ad indurre una mutazione estrema circa il confine delle cose: esse erano invitate a compiere un passo all'indietro, a recedere dalla necessità di mostrarsi feconde, corpose, pingui, chiassose in eccesso, nel modo cui gli uomini sono avvezzi fin dal principio. Ad una siffatta continua esibizione essi sono spinti da una disperata impotenza e in essa coinvolgono di necessità le cose invogliandole a un abbraccio mortifero nell'illusione che, essendo il mondo una cosa esistente e visibile lì fuori, ad esso ci si possa uniformare condividendone l'apparenza, nell'illusione di sconfiggere una morte che incombe senza scampo. Quell'uomo saggio - o chi per lui? - aveva sottratto alla natura incompiuta dell'uomo e delle sue cose il rumore di fondo che tutto invade anche oltre il momento finale. Aveva sconfitto il baccano che neppure la morte sa far cessare. Essa risulta deficitaria e distruttiva in modo totale - o forse neppure ha tale forza -, stracolma di sé e narcisista, apportatrice di frammentarietà e di coazione. La morte è appariscente e pingue, d'un grasso nocivo e doloroso a causa del vibrare incessante che tiene in vita la vita e le sue cose: ambiguo altresì quell'evento che essa morte individua e con il quale - data la recisione mancata che suggelli compiutamente la fine - è offerta la falsa impressione che si attenui almeno lo schiamazzo che la vita oppone alla sua dipartita. Quell'atto, espressione d'amore illimitato, s'era mosso in soccorso soprattutto della cessazione impotente che proprio la morte impone alla vita e che tutta l'attraversa senza possibilità di sortita. La realtà umana era stata fino ad allora sottomessa a quell'esito finale presente in ogni atto dell'esperienza, che tuttavia era incapace d'esaurire la carica vitale in eccesso e di mutare in quel niente finissimo per il quale ovunque invece ora s'era aperto il varco. Vuoto quello spazio nuovo se commisurato alla grevità cui la mente di uomo si riferisce nel giudicare e vagliare le cose; vuoto d'una morte inopportuna, satura e ingombra di macerie da smaltire. Uno stato d'altro genere, unico oltre il suo stesso limite, sterile all'apparenza a confronto con la corpulenta ideazione e spiritualità dell'uomo, espressione invece d'affetto libero e aperto che si dà smilzo e vivissimo senza chiedere altra ricompensa; un nuovo stadio, un diverso talento: essi avrebbero rappresentato il culmine perfetto e la fine compiuta, il frutto dovuto, elargizione non evidente, analogo a un mondo assente, fondamento del Buon Seminatore. Termine estremo nel quale l'evoluzione dell'uomo - e del dio che spesso l'accompagna - avrebbe potuto trovare compimento adeguato, avendo dato il via alla mutazione di tutte le cose ormai capaci, se occorre, di mancare in ogni tratto, ricche d'una sterilità in assenza assai feconda, e d'una povertà che s'apre danzando e oscillando ad ogni passo al nuovo inseminato di niente.

 

 
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