Paolo Ferrari
Paolo
e il suo compagno
senza nome
I capitolo, II parte (2/5)
Rigodòn un ricordo. Rigodòn,
Rigodòn! grido.
Un'elegia della pazzia. Ho avuto una crisi, s'è aperta, era stretto
il tempo, vero Flavia? Quell'ora" che ho scritto sentito non lasciava
scampo. Aggredita. Allora silenzio.
Come puoi dire, se non parlo nel tempo più largo a capofitto nella
testa che ci avvolge e abbraccia di forza e lascia cadere e sottiene senza
durare? Ora potresti anche parlare tu, ma voglio parlare io.
Pazzo si è detto, pazzi son detti, schizofrenici sono diagnosticati.
vero. Gli altri normali. Non sono pazzi i normali. Ma sono pazzi i normali,
e son folli i folli.
Scindersi è facile, dissociarsi è facile, ma scindersi è
un'arte, dissociarsi disgregarsi è anche un'arte ola vita che esplode
e si placa su un piatto durevole solido stantio, che vola ed è
già là, subito ora passando cent'anni. Chi sei?
Rigodòn, Rigodòn, mi veniva da dire. Uccido dentro il tuo
cranio quel toro ammansito, che si mostri e si lasci toccare, morto ammazzato.
E poi: avete visto, avevo ragione, ho creato un uomo. Prima: suzione,
rumori di bocca, stasi profonda, vortici di spazio pulsante, quattro dimensioni,
sopra, sotto, sotto, sopra, di fianco in là dietro di là
e di qua sapendo l'affetto non riparativo. Amore che muta strutture formate
e incluse dentro di me, le cose. A volte vedere puntiformi stati tra il
cielo, il verde, puntini di tanti colori, grossi poi i punti a comprendere
tutto, e ancora siamo di là. Altrove sensi di morte, una morte
non voluta, si è vivi e senti la morte, t'aggrappi ed è
dura, lo stomaco, fino alla pancia, la testa si abbassa. Che dire? Pensare,
una passeggiata a incontrare qualche gente che ti veda. Esisto. Il tabaccaio,
il barista di fronte ai treni fermi nella stazione. Frusciare di pensieri
e parole scavate, strozzate. Ma lo volete, io voglio sapere, tremare,
che scoppi la morte, e sono un poco più in pace.
Una crisi; fratello, fratello! invocavo, senza coscienza di tempo, lo
spazio nel sonno, un corna nel cielo dove s'incontra una traccia che è
scritta dentro la testa. Ho creato, speravo, mi dico, creato, la Paola
mi dice che ha ovulato, se avessimo fatto 'l'amore, sarebbe nato il figlio.
Ma io ero lontano, non ho voluto. La testa mi diceva di scrivere, il corpo
eccitato, scontri con gli amici, scherzosi, non voglio parlare 'e parlavo,
quasi gridavo. Bevevo del vino, Bruno era lontano, lo volevo vicino. Poi
si placava lo stato, chinavo la testa sul bimbo, più in pace. La
colpa comunque non c'era, l'autodistruzione aveva lasciato posto a questa
esplicazione: atti, sentire, durare in eterno. Non avere paura, di perdersi?
di lasciare? di uccidere? di essere ucciso? Che so, ma niente di tutto
questo. Stavo in subbuglio, ma stavo anche bene. Pazzia pura, quella della
gente se lasciasse stare etichette, intermediari per parlare, per essere,
anche per amare. Prova a guardare un bicchiere, prova a non sapere che
serve per bere, il non sapere quello che sai, allora perde la forma e
va dove si ferma e ti fa vedere ogni 'singolo strato, arcuato, incurvato,
convesso, roteante, salato e quieto, fermo, strutturato senz'essere di
più di qualsiasi cosa, che sai, ma sai di quella persona che sente
la colpa, la espia, non deve espiarla e allora ha la colpa se ha espiato
la colpa soltanto perché l'ha sentita. Lucia allora ha dietro di
sé un'altra Lucia e poi dietro un'altra e poi un'altra, rimoltiplicata
di nuovo, ma ognuna ferma di morte, sotto il rudere nel deserto, a starsene
in pace.
Ma crepa, spero di no, ma è già morta. Le han detto che
è pazza. L'han presa, rinchiusa, stai attenta a non farti vedere.
Allora ogni atto è sbagliare. Passato chiuso in sé, lasciato
11, morto senza fragore, né pianto. E' soltanto morto; soltanto.
La presero, tentava di continuo di uccidersi, strapparsi le vene, ingerire
barbiturici, fin da bambina. Cercare la morte per sentire la vita. La
presero, legata in una stanza imbottita. Costretta, sentiva la notte un'altra
sua compagna dalla stanza accanto gridare e poi di colpo silenzio. Un
grido e poi niente. Per Otto mesi. La madre venne a prenderla. Sul treno
per l'Italia, vedendo un finestrino chiuso, un gesto quasi automatico
forse un antico ricordo, prese la maniglia e la alzò. E il vetro
si alzava. Un gesto e qualcosa avveniva. Si apriva un atto pensato, forse
voluto, chissà. Da allora scoprì la libertà e non
volle più uccidersi per cercare il tempo che scorre. Ma ora deve
espiare, stai attenta che gli altri si accorgono che qualcosa non va,
si dice da sempre. Speriamo nella dente, la sua benevolenza. ~ tutto qua,
se no non 'puoi.
Lottiamo insieme perché si spacchi l'incertezza, gli occhi si chiudono
talvolta, la vedo lontana, una sfinge, nessuna espressione, non si deve
sapere quello che si pensa, perché non si deve disturbare il buon
pensatore.
Chi ne sa di più. Scindersi è difficile, è una rinuncia.
Rinunciàm, rinunciamo! Tu che non l'hai fatto sei matto, matto
e operiamo il cervello, quel piccolo lobo nel cranio, che serve? Ce ne
sono tanti in più. Ma non sai che basta accogliere, non aver paura
oppure accettare, volere che la paura ti entri nel corpo, perché
chi è pazzo possa non esserlo ed entri nel tempo tuo, delle cose,
scivolando e creando sull'altro tempo delle altre cose dove si svela il
mistero a tutti noto, ma che c'è stato imposto di non toccare,
né amare, né avere all'inizio dei tempi. Ed era giusto allora.
Ma ora?
E tu Sandro, perché ti nascondi? Ti chiamavo, credo, stanotte.
Cristiana, smuovi il corpo, quel chiedere di star lì, giudicare,
senza colore, tutto è a posto. Lascia che il posto sia preso da
altro, altri e tanti. Forse un attimo anche tutto, questa parola aborrita,
perché vuol dire troppo, o nulla se non capisci. Ti spacca la testa
e costringe quel gabbiano che ho letto in una bella poesia a prendere
lapislazzuli, artigli rattrappiti, il becco aperto a parlare ai morti,
O in quell'altra dove quell'uomo, il poeta o qualsiasi altro passava nelle
viuzze, toccava le osterie nascoste, macilente a scoprire pietà
nel corpo di Cristo, senza aspettare un volto mistico, ma cantando lento,
più lento, accorato, non lirico, piatto, una pietà sapiente
al di là del dove, presente qui. O quell'altro che urla, si mangia
le parole, allucinato si parla, si ingozza di tragico sapore toccando
i corpi, le puttane, vicino alla Senna, la lue, disprezzando la bimba
che rantola e lasciamola rantolare, che crepi, ma ormai la guarda, comunque
ha sentito il rantolo, nel polmone, con l'orecchio attaccato allo stetoscopio,
il vicino di sotto che è morto, è bastato un ultimo sospiro
senza altro. t morto.
Distrugge, ma guarda ciò che rifiuta e racconta la storia di un
principe durante la battaglia a colloquio nel castello bagnato da acqua
nella tempesta, (paesaggio di cupa creazione), con la morte. " E
aspetta " le dice. Ma no, prendimi. Non sa. Ha aperto un dialogo,
e il tempo si ferma e lui ha guardato. Già ce l'ha dato, se l'è
dato, che vive, che mi spinge, reazione, tavoli che ballano, perché
passa la metropolitana, di sotto nella terra, vicino alla finestra dove
io scrivo e guardo i rumori e conto i colori: ormai tutto è uguale.
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