INDICE DEL LIBRO BLU
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Paolo Ferrari

Paolo
e il suo compagno
senza nome

I capitolo, III parte (3/5)

Ho letto a Paola lo scritto, mi sono emozionato, prima ero distaccato. Mi è difficile scrivere, sento un buco più dentro e aspetto. Fuori è fermo. Un colore scuro davanti, disegnato di ringhiera piena di polvere e annerito, in mezzo il verde del prato, non sa di niente. Due persone si muovono, si siede una, l'altra è ancora in piedi. Sta per sedersi, un gesto, ecco mi sembra seduta, nella mia testa. Ora guardo. Non ci sono più. C'erano eppure, ora si sono allontanati? Non so. Una bambina in bicicletta. Un salto nel vuoto. Un signore grande vicino al fosso del ponte levatoio, l'ho guardato, vicino a lui la moglie, un volto nascosto, lo immagino, si vede nel corpo del parco davanti tutto l'intero, o soltanto un occhio, la fronte di fianco, il mento, il cappotto.
Io dentro la mente lo vedo di là, il volto è intero. Scindersi è facile, è un'arte. Ed ecco dissociarsi, frantumarsi rimanendo con le gambe per terra, il corpo pronto, magnifico solitario, tutt'intero non so, forse fra quei rami di quell'albero fermo? O tra le grate di quella finestra che non guarda dietro i mattoni, un buco, ma questa? O dietro, più dietro un altro cancello che non vedo? Sono in pace, raccolto il mio stato mi ascolto, voci della televisione: Pippo, dice mio figlio, la Paola seduta sul letto, non fa rumore, soltanto il lenzuolo schiacciato, un fragore dietro la tenda del bagno in quella fuga di attimi di spazio che rincorre se stesso, si trancia, sfibra le foglie della magnolia dietro la casa, sfibranti si tengono il loro tormento, ed ora ridono all'attenzione fissa di Nicolò. " Ciao Pippo" sta gridando. A me dove va? Un formicolio " ah " lo sento dire, un camion che passa "camion de terra" lo chiama mio figlio, Nicolò si chiama. L'abbiamo chiamato. La Paola parla, " Pippo " anche lei, si sostituisce a lui, Nicolò, si sostituisce a me.
Questo verbo che mi colpisce, l'ha scritto Pietro, nel suo racconto. Chi sostituisce prevarica il tempo, supera il mio tempo e quello dell'altro, gli fa fare una giravolta, lo trascina su, in un piano parallelo appena spostato più in là in uno spazio e
riprende da capo, in un altro verso più cantato, sentito, forse urlato, silenzioso di mente che bacia il suo corpo, o di corpo che accarezza, e si stringe e ama il pensiero mediato, lo spinge immediato e si ferma, si guarda, non guarda anzi niente, ed è
unito.
Ma come parlare? E' difficile, questo. Un passo in avanti, stanno picchiando dei colpi forse con un martello, non passa nessuno, i colori si stanno mettendo diversi, loro tutti uguali, prendono piccoli movimenti, e il prato davanti fa crescere l'erba, prima, poco prima, all'inizio, poi ora, era stata fermata, non cresce va, non poteva da sola.
Quel mondo non parla, allora l'erba non cresce. La gente che pensa bene, profonda, etichetta; e se fosse quello lo stato d'un' intera follia? Quel mondo parla, ma nessuno l'ascolta, e il male serve per la struttura, un niente, un codice civile, una rinuncia. Stanno passando le macchine. Potrebbero anche star ferme, il prato ha ripreso la sua corsa, dentro ai colori, cresce vicino a quel bimbo col maglione giallo, che sradica l'aria, accanto a una mano che osserva le siepe del muro e gli indica qualcosa, parla. Il muro risponde, il martello non picchia. Stanno caricando qualcosa. Un trasloco, penso. Me l'ha detto Mafalda. Suo marito è stanco, ma non sa dire di no. E ora è domenica, lavora per fare un piacere. Nicolò mi sente. E io l'ascolto; mi fermo, chiudo la penna fra un poco, ora, ma sto scrivendo. Ora mi fermo, me lo dico. Lui corre, è qua: " Pippo ".


Poter raccontare una storia su se stessa, la tragedia che non vede, soltanto tra le parole scritte più dietro nel margine. Ed essere chiusa. Un romanzo, un narrare di cose. No, apparire il margine, descriverlo, sentirlo che apre? Una carezza, è, si dice. Ma lasciala in pace, lascia che si sgretoli, non rompere le scatole, cammina in punta di piedi, sfiora e grida, e poi accalorato buttati in una pozza e aspetta. Noi tutti sentiamo qualcosa di più. Quel mio barista, la stazione, il viso sospira, ora è più sereno di quel giorno che l'ho visto. Mi serve il caffè e io lo ringrazio. Non mi sente. Arriva un ferroviere, allora si parlano. Vedo lo scontrino, cento lire ha pagato. Io centoventi. Evidentemente a chi lavora nei treni quel bar davanti offre lo sconto, quell'abito scuro triste, che ognuno deve indossare se vuole far parte di quel corpo di uomini che vanno avanti e indietro, Milano-Varese, Como-Milano, che si chinano ad aprire sotto le ruote ciuffi di vapore, di cose stanche che sono raccolte. Basta un piccolo bastone, quel gesto leggero, inchinarsi per terra, stringersi un poco, ed ecco l'accumulo si scioglie, la polvere bianca, bolla di aria condensata, soffio di liberazione, nel nero dietro le ruote carbonizzate dal buio fragore tra il ventre di sotto, si macchia dapprima e poi si schernisce: è solo bianco, capace di mordere e spingere un poco, quel mondo che s'interrompe. Quando non nasce, rimane immoto, o si infila in strane parole, sempre uguali, sei pazzo fatti curare. Oppure prende le mani paura di picchiare e far male, il pensiero, pensiero di sé si rompe, travolge, e quello distrugge, ma lascialo andare, non avere paura, mostra quell'atto, è mostrato, è fatto, nulla è avvenuto. Il fantasma dorato, agognato, cercato, temuto, odiato, distrutto, famigerato, intriso di rabbia e pungenza, trafigge, ti spegne, lacera, allunga il dolore e tu corri, trattieni, ma lascialo andare appena lì sotto, dove il sogno prende rumore, un piccolo male, ferita di fede e puoi accedere al passato che riempie un buco aperto di là, dall'altra parte e tu sbagli, lo riempi di desiderio, di vorace, incongruo parlare, sapere e muori talvolta; s'interrompe. E' qui che il mondo non nasce. E qui quel mattino che non lascia pace, se non sotto le coperte e ti rivolti, sperando nel sonno. " Non voglio più alzarmi " diresti comunque. Lo puoi, lo fai solo perché hai tolto da te qualcosa, quella scissione, è un'arte, arte di rinuncia, potresti anche passare di lì. Ma poi lasci sconsolato tutti gli altri attimi, fermi inquieti, non sanno perché. Vedi occhiaie nella gente. Tristezza. Passione grida qualcuno. Ma quella si tramuta in corsa affannata. Ottimismo un altro, ma quello implica chiudere lo sguardo, dolore quell'altro e gli caddero gli occhi nella minestra. Solidità gli altri in coro. E vero, così è bello essere sempre uguali: nulla è mutato, niente si muove. " Ma no, non è vero " risponde. Son io che sto fermo allora vedo il tempo che scorre, la ciliegia, quale linfa gli porta di rosso? si chiedeva quel verso. Ma per cogliere il rosso, il senso segreto, muoversi da una .parte e aspettare, muoversi dall'altra e aspettare, fin qui fatalità, che ci vuoi fare, le cose stanno così. E saggio. Evviva la saggezza. E il saggio sul suo seggiolone, rimbambito, che grida, di certo sottovoce: sei pazzo, deviato, il progresso non implica alcun peccato, nessun errore, non la colpa, e si bea, e il vuoto sale. Per lui può anche andar bene, solo che gli altri, chi arraffa, chi uccide e piange e si strozza, occhiaie, certezze che non vedono e sono rinchiusi, le orecchie tappate, gli occhi nella minestra, sapori lontani. Liberateli dice. E nobile il signore, speriamo che cada dal seggiolone.
E' folle sperare in idee di altro, svegliarsi senza sapere che quello
che vedo può essere molto, tutto, non quadrato, né già fatto, ma fuga d'incensi, sapori di violino, bambini che ridono, rumori interi, una collina in due, dietro e davanti, di fianco un'altra, ma è la stessa, solo che la vedo tutta sospesa e per terra, innevata e fiorita, nel cielo e nel mare nel tempo che apre ore mai viste, scorte tra il fischiettare di quell'uomo che passava, e sembrava un uccello, non sapeva di essere tra 'le case, tra noi e poi s'accorse e si abbandonò ora non solo dentro la mia casa, anche in quell'altra vicino, e in quella di fronte. I muri possono fischiettare, anch'essi come usignoli. L'avete mai sentiti? Ascoltate ora; basta non sentire, allora l'occhio si apre e scorge il colore di note modulate fatte di un uomo triste che non poteva sapere di esserlo, soltanto perché era nato senza parlare ai gabbiani che hanno deposto le uova, prima di dimenticarsi di parlare: erano uomini pieni di cose legate e sbrigliate al di là del mondo dove fu nascosta la morte.

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